Giovanni Gazza: un vescovo del Concilio

Sabato 6 dicembre segnerà un momento di profonda memoria per la comunità aversana: dopo ventisette anni dalla sua morte, il vescovo Giovanni Gazza farà ritorno tra il suo popolo.Pastore della diocesi dal 1980 al 1993, guidò la Chiesa normanna con dedizione e discrezione, fino a quando la salute lo costrinse a lasciare Aversa per rientrare a Parma, tra i confratelli saveriani. Proprio lì, il 6 dicembre 1998, concluse la sua vita terrena. Ora, i suoi resti mortali troveranno dimora nella cattedrale di Aversa, accanto alla Casa di Loreto, fatta costruire dalle fondamenta nel 1630 dal vescovo Carlo I Carafa: un luogo che custodisce secoli di storia e di fede, e che si prepara ad accogliere nuovamente il suo pastore.

Gianni Gazza era nato a Parma il 19 luglio 1924, a quindici anni entrò nell’Istituto Saveriano, dove già si trovava suo zio p. Giovanni che fu uno dei primi alunni del Conforti. Fu ordinato presbitero nel 1949 e a soli 33 anni, nel 1957, partì per il Brasile affidando la madre vedova alle cure dei confratelli d’Italia e alle Saveriane fondate dalla Madre Bottego. Nel 1962 fu nominato primo vescovo di Abaetetuba, nel nord del Brasile, Amazzonia: aveva 38 anni. In quella diocesi immensa, dedicò tutte le sue forze giovanili al servizio missionario, affrontando un compito pionieristico che lo conduceva per giorni interi lungo i fiumi dell’Amazzonia e attraverso i sentieri fangosi della giungla, per raggiungere nuclei isolati di cristiani che non avevano mai incontrato un sacerdote. Nel 1966, dopo nove anni vissuti in Brasile, fu eletto superiore generale dell’Istituto, in un tempo difficile che vide gli anni turbinosi del ’68. Proprio nel settembre di quell’anno, la cattedrale di Parma fu occupata da gruppi giovanili. Il documento del consiglio pastorale della parrocchia di S. Maria della Pace in Parma riprendeva il cosiddetto documento di contestazione con il quale i giovani occupanti sottolineavano come la povertà fosse una condizione essenziale della Chiesa; che la partecipazione dei fedeli all’esercizio dell’autorità fosse una naturale conseguenza della corresponsabilità del clero e dei laici; che la formazione del clero avvenisse nel clima e nelle condizioni previste dal Concilio per poter contare su sacerdoti preparati ed inseriti nel loro tempo; infine che i mezzi materiali per le opere cattoliche provenissero dai cattolici e non dalla largizione di privati e di enti che in ultima analisi avrebbero condizionato e limitato la libertà della Chiesa.[1] Erano delle richieste a cui la gerarchia ecclesiastica doveva delle risposte, ma anche un invito a tutta la Chiesa postconciliare a riflettere e a camminare insieme sulla strada del Vangelo.

Terminato questo difficile periodo del superiorato, padre Gianni rientrò umilmente tra le file dei confratelli, prestandosi per ministero come un semplice prete o recandosi ad amministrare cresime entro o fuori la diocesi di Parma. Il 24 novembre 1980 il Papa Giovanni Paolo II lo designò vescovo di Aversa. La sede era vacante dal 10 giugno 1980 per la morte del vescovo Antonio Cece e vi accorse subito, nel dicembre, per assistere la gente colpita dal terremoto e per prendere parte alla sue sofferenze. Durante il terremoto del 23 novembre, nella città di Aversa diverse chiese furono danneggiate, e la più colpita fu la chiesa dei Ss Filippo e Giacomo(Madonna di Casaluce) in via Roma. A causa del crollo del campanile e della cupola persero la vita il parroco don Pasquale Ciani, i suoi genitori, la sorella Antonietta e una vicina di casa. Da subito, il vescovo Gianni fu un padre per i suoi diocesani.

Amabile, calmo e sereno, fu un costruttore di pace. Desidero condividere un ricordo personale di un episodio avvenuto a Carinaro nel 1992, in occasione della nomina episcopale di Crescenzio Sepe, che racchiude in sé una riflessione profonda sul senso della presenza ecclesiale e sul volto che la Chiesa sceglie di mostrare al mondo. Da un lato, la figura del cardinale Michele Giordano, circondato dalla scorta, inaccessibile, distante, quasi regale nella sua postura, evocava un modello di Chiesa istituzionale, gerarchica, che rischiava di perdere il contatto con la carne viva del popolo. Non rivolse nemmeno uno sguardo ad un gruppo di bambini che cercavano di salutarlo. Dall’altro lato, il vescovo Gazza, che con semplicità e tenerezza si chinò su quei piccoli, li abbracciò e li benedisse. Il suo gesto fu umano e proprio perché umano fu evangelico.

Il vescovo Gazza, ancora oggi, appare come una figura che ha saputo unire radici e orizzonti. La sua missione in Amazzonia e ad Aversa mostra come il Vangelo non perde mai la sua freschezza quando è vissuto con autenticità: diventa parola incarnata, capace di illuminare culture diverse e di sostenere comunità lontane. La sua esperienza di padre conciliare gli permise di portare nella Chiesa locale lo spirito del Vaticano II, cioè una fede dialogante, aperta e attenta ai segni dei tempi.

Furono sette i vescovi saveriani al Concilio Vaticano II, e padre Gazza fu l’ultimo dell’Istituto ad essere ordinato durante il Concilio. Nel 1965 si trattò del decreto sull’attività missionaria della Chiesa, Ad gentes. I prelati dell’America latina formarono un gruppo di studio che suggerì alcune modifiche al n.6 del testo. Ritenevano che dovessero essere considerate missioni anche quelle zone in cui la gente era stata battezzata, ma era mancata una sufficiente evangelizzazione.[2]

Mons. Gazza non solo fu il presentatore dell’interpellanza, ma anche colui che suscitò il problema. Nella sua relazione inviata al superiore generale dei saveriani, nel dicembre 1964, nell’illustrare il lavoro apostolico svolto nella missione di Abaté durante l’anno, il vescovo scriveva che la missione religiosa in quella zona era influenzata dalla dispersione della popolazione. Quattro quinti degli abitanti vivevano sparsi in piccoli gruppi, lontani dai centri principali. Le distanze tra le famiglie erano grandi, e spesso si poteva arrivare solo a piedi o in canoa. Durante l’anno vi erano dei momenti di visita alle famiglie, ma era difficile farlo con regolarità. Si cercava di mantenere viva la presenza religiosa, anche se non si poteva sempre celebrare la messa. Si facevano incontri di preghiera o di catechesi, anche grazie alla presenza costante di laici, di catechisti o diaconi. Si cercava di dare un senso di comunità e di fede.[3] Nel suo commento al secondo capitolo del decreto conciliare sull’attività missionaria della Chiesa, padre Gazza così scriveva: ‹‹[…].

La preoccupazione principale è quella di considerare gli strumenti classici della missione ed il loro impiego, nel quadro e nello spirito delle grandi prospettive ecclesiologiche del Vaticano II. In questo modo, i temi della testimonianza, del dialogo, delle opere caritative, della evangelizzazione vera e propria, del clero autoctono, etc., sono stati animati da quella carica vitale tutta propria del Concilio che ha compiuto la sua riflessione sulla Chiesa e la sua missione alla luce dei grandi movimenti dell’aggiornamento, quali quello liturgico, biblico, pastorale, ecumenico e sociologico››.[4] Inoltre, nel commento al testo conciliare, padre Gazza evidenziava come i catechisti non erano semplici collaboratori, ma protagonisti della missione ecclesiale. La loro valorizzazione, formazione e giusta retribuzione rappresentavano un passo verso una Chiesa più equa, partecipativa e radicata nel vissuto delle comunità. Il Concilio non solo riconosceva il loro ruolo, ma lo rilanciava come essenziale per il futuro della catechesi e dell’evangelizzazione. A differenza di oggi, dove una parte del clero e dei laici clericalizzati sembra cercare l’essenza della fede nel ritorno alla messa in latino e nelle tradizioni liturgiche, padre Giovanni Gazza ha incarnato un’altra prospettiva, più radicalmente conciliare e più evangelica. La sua visione non si è fermata alle forme esteriori, né alla nostalgia di un passato idealizzato, ma ha posto al centro la concretezza dell’incontro umano. Per lui, la presenza di Gesù non si manifestava primariamente nei segni rituali o nelle solenni architetture liturgiche, ma nel volto e nella vita delle persone, soprattutto dei più semplici e dei più marginalizzati. Gazza, discepolo del Vangelo, ha saputo leggere la storia con occhi di fede, riconoscendo che il vero rinnovamento non consiste nel ripiegarsi su forme rituali, ma nel lasciarsi trasformare dall’incontro con l’umano, dove Cristo stesso si rende presente.

Prof. Arturo Formola
Docente in Sociologia Generale
I.S.S.R. Interdiocesano “Ss. Apostoli Pietro e Paolo” – Area Casertana (Capua)

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[1] Cf. Documento del consiglio pastorale della parrocchia S. Maria della pace; in ‹‹Fede e Civiltà›› rivista mensile di cultura e di formazione missionaria saveriana, anno 66˚, n.9, settembre 1968, 25-26.

[2] Cf. A. Luca, Vescovi missionari saveriani al Concilio; in ‹‹MissioneOggi››, n.1, gennaio 2013, 33-34.

[3] Cf. G. Gazza, La Prelazia di Abaté do Tocantins; in ‹‹Fede e Civiltà-Le Missioni Saveriane nella prospettiva del Concilio››, n.10, dicembre 1964, 35-40.

[4] G. Gazza, Commento al Secondo capitolo del Decreto Conciliare sull’attività missionaria della Chiesa; in ‹‹Fede e Civiltà››, nn. 2-3, febbraio-marzo 1966, 47-48.